Unità 1 - Introduzione
Due pallottole
Il 21 giugno 1862, sulle orme dei Mille, una spedizione di volontari agli ordini di Giuseppe Garibaldi parte da Genova per la Sicilia. L’obiettivo è chiaro: Roma o morte. Il Re e il governo di Urbano Rattazzi fanno finta di non vedere. L'accoglienza dei siciliani è entusiasta. Garibaldi trova ad attenderlo grandi manifestazioni di popolo. Crescono i volontari. Ma il 3 agosto, dopo un duro monito di Napoleone III, Vittorio Emanuele condanna pubblicamente l’iniziativa e manda un contingente militare agli ordini del generale Enrico Cialdini a fermarla. Malgrado ciò, Garibaldi va avanti e il 25 agosto sbarca in Calabria.
Il 29, infine, le truppe italiane intercettano i volontari (un paio di migliaia) sull’Aspromonte. Nel breve scontro a fuoco, che lascia sul terreno una dozzina di morti e numerosi feriti, Garibaldi viene colpito alla gamba sinistra e al malleolo del piede destro. Arrestato, é condotto dapprima a La Spezia e poi a Caprera. Il 5 ottobre viene concessa l’amnistia. Il 29 novembre il governo Rattazzi si dimette.
Il più amato al mondo
Il ferimento di Garibaldi è un avvenimento clamoroso. Il generale con la camicia rossa è l’eroe della nazione italiana, colui che ha contribuito in modo decisivo all’unificazione del paese, proclamata appena un anno prima, nel marzo 1861. La notizia che é stato colpito dai suoi stessi compatrioti fa subito il giro del mondo e lascia tutti allibiti. Negli anni Sessanta dell’Ottocento, Garibaldi è “forse la persona vivente più conosciuta e più amata del mondo”, ha scritto D. Mack Smith (D. Mack Smith, Garibaldi. Una grande vita in breve, Milano, Lerici, 1959, p.121).
Soprattutto tra gli inglesi, sta diventando un mito. Sono “il beniamino di cotesti signori degli oceani”, dirà lui stesso nelle sue Memorie (G. Garibaldi, Memorie, Milano, Rizzoli, 1998, p.253) . Dopo il ferimento, perciò, i commenti e le reazioni non si contano. Decine di chirurghi si offrono di estrargli la pallottola rimasta conficcata nel malleolo. Lettere di solidarietà arrivano da leader politici europei e americani. Ma gli scrive anche la gente comune.
Un paese diviso
I fatti di Aspromonte sono il segno inequivocabile che il nuovo Stato italiano sta nascendo in modi conflittuali e divisivi. Divisioni politiche gravi tra liberali (i cosiddetti “moderati”) e democratici; nascita di una questione cattolica, sull’onda della reazione aspramente negativa del Papa rispetto alla nascita del nuovo Stato; emergere di una precoce “questione meridionale”, a causa delle diversità territoriali esistenti nella penisola al momento dell’unità; sono molti gli elementi che rendono difficile il quadro politico italiano, nel corso del Risorgimento e poi nell'età liberale.
Ma nulla indica meglio queste complicazioni che un confronto tra i due padri fondatori della nuova Italia. E’ difficile trovare personalità e biografie più diverse di Cavour, aristocratico di cultura liberale europea, imprenditore di successo, abile politico, diplomatico finissimo, e Garibaldi, uomo del Sud del mondo, guerrigliero e guerriero, leader carismatico, impolitico, antipolitico, democratico.
Il diplomatico del Nord
Cavour (1810-1861) è un nobile piemontese di famiglia florida, influente, colta. Ed europea. Il conte Camillo viaggia molto nell’Europa nord-occidentale e-ne assorbe la cultura liberale, impara il free trade e la fiducia nel progresso economico. Dal 1835, come amministratore delle tenute di famiglia, si dimostra un grande innovatore (nuove culture, irrigazione, selezione del bestiame, ecc.).
Nel 1848 entra in politica. Dal 1850, come ministro dell’agricoltura e poi delle finanze, modernizza il suo Piemonte (strade, ferrovie, canali, promozione dell’industria pesante). Nel 1851 mette assieme moderati di destra e di sinistra, tagliando fuori le estreme: il centrismo sarà un modello di lungo periodo, nella futura Italia. Tra 1854 e 1860 partecipa alla guerra di Crimea, si allea con Napoleone III, diventa l’interlocutore privilegiato di Francia e Inghilterra, gestisce e garantisce l’unificazione italiana. Un altro capolavoro.
Il guerriero del Sud
Giuseppe Garibaldi (1807-1882) nasce a Nizza, figlio di un capitano marittimo. A sedici anni inizia a navigare nel Mediterraneo. Affascinato dal socialismo e dal nazionalismo, nel 1834 partecipa a una rivolta mazziniana a Genova. La rivolta fallisce, Garibaldi è condannato a morte in contumacia e nel 1835 fugge in Sud America. Qui combatte con i repubblicani del Rio Grande contro l’impero del Brasile e poi con l’Uruguay contro l’Argentina. Per oltre dieci anni fa il guerrigliero, il corsaro, il comandante di flotte ed eserciti. La sua vita é un romanzo: battaglie navali, agguati, marce nella foresta, prigionia, torture, fughe. Nel 1848 torna in Italia a difendere la Repubblica Romana. Sconfitto, va nelle Americhe come operaio, marinaio, mercante. Nel 1854 é ancora in Italia.
Nominato generale, partecipa alla guerra contro l’Austria (1859) e conquista il Regno delle Due Sicilie (1860). Nel 1862 e nel 1867 progetta senza successo la presa di Roma. E’ ormai un'icona mondiale. A Londra, nel 1864, é accolto da una folla mai vista prima nella capitale inglese. Ma lui vive a Caprera, isolandosi da una politica che non ha mai troppo amato. Muore a 75 anni. Guarda Il tempo e la storia. Viva Garibaldi!, di Michela Guberti, con Gilles Pecout.
Complotti, diffidenze, sfuriate
Naturalmente, tra un personaggio mediatico come Garibaldi e un personaggio-ombra come Cavour i rapporti sono spesso difficili. Cavour deve accettare l’iniziativa garibaldina dei Mille ma cerca di depotenziarla politicamente e militarmente in ogni modo. Nel maggio del 1860 è diffidente verso l’impresa dei Mille ma confessa che “il governo non é in grado di sfidare l’immensa impopolarità che l’avrebbe colpito se avesse voluto far arrestare Garibaldi” (Cit. in D. Mack Smith Il Risorgimento italiano. Storia e testi, Roma-Bari, Laterza 1999, p.441). Nell’agosto, riconosce la forza morale del generale: “se entrassi in lotta con Garibaldi […], l’opinione pubblica europea sarebbe contro di me” (Cit. in D. Mack Smith p.455). Nel frattempo, tuttavia, cerca di fermarlo con trame spregiudicate, non esitando a contattare e coinvolgere esponenti di primo piano del regime e della stessa famiglia Borbone. Garibaldi, a sua volta, lo attacca duramente per la decisione di sciogliere l’esercito delle camicie rossa. In Parlamento, il 18 aprile 1861, il generale parla addirittura di “una guerra fratricida, provocata da questo governo”. Cavour risponde offeso: “Non é permesso insultarci a questo modo.Noi protestiamo!” (Cit. in D. Mack Smith p. 497). Scoppiano tumulti in aula. I due non si amano.
Unità 2 - Una difficile partita politica
Un sovrano ingombrante
Rispetto ad altri casi europei, la nascita dello Stato italiano è particolarmente complessa. Sebbene la costituzione materiale abbia trasformato il Regno di Sardegna in un regime parlamentare, i rapporti tra presidente del Consiglio e Re sono difficili. Vittorio Emanuele II cerca spesso di contrastare Cavour o di imporgli le sue vedute. Il 17 aprile 1860, reagendo alle critiche ricevute pubblicamente dal re per la cessione di Nizza e della Savoia, Cavour gli manderà un famoso biglietto: “Dopo le parole che ieri pronunciaste, qualunque ministro avrebbe dovuto dare le sue dimissioni. Ma io non sono un ministro qualunque. Pertanto rimango”.
Tutt’altro, per esempio, il caso di Bismarck, che sembra legato a Guglielmo I da una specie di patto feudale: “I miei sentimenti sono quelli di un vassallo”, gli dice nel 1862, dopo la nomina a cancelliere. Ma quella nomina diretta, senza interferenze parlamentari, dà a Bismarck un grande potere.
Il contesto geopolitico
Il Regno di Sardegna é politicamente e militarmente debole, sebbene stia scardinando niente di meno che gli equilibri europei sanciti a Vienna nel 1815. L’ambiziosa diplomazia cavouriana deve vedersela con una Francia indispensabile, ma ingombrante. È costretta a cedere territori a uno Stato straniero. Deve prendere atto di una vittoria agguantata nel 1859 per interposta persona.
Subisce l’umiliante passaggio di mano della Lombardia da Vienna a Parigi e da Parigi a Torino. Ciò che si sarebbe ripetuto nel 1866, con il passaggio del Veneto da Francesco Giuseppe a Napoleone III e da Napoleone III a Vittorio Emanuele. La diplomazia piemontese e poi italiana non conoscerà mai un trionfo militare come quello che Bismarck consegue nel 1866 a Koniggratz e che, intrecciando nazione e vittoria armata, gli consente di blindare il proprio potere nella prossima Germania unita.
Le divisioni nel movimento nazionale
Il movimento nazionale é articolato, disomogeneo, spaccato. Mazzini propone iniziative insurrezionali difficili da prevenire e impossibili da addomesticare. Garibaldi e i democratici elaborano strategie militari e rivoluzionarie che mettono in pericolo le alleanze piemontesi, rendendo ancora più sospettosa l’Europa nei confronti del nazionalismo italiano.
Cavour, per parte sua, si muove nella tradizionale linea sabauda di un regno circoscritto alle regioni settentrionali, sebbene prevedibilmente egemone sul resto del paese. Rifiuta cioè di farsi carico dei territori meridionali. “Per ora non bisogna occuparsi di Napoli”, scrive a Giuseppe Massari, all’inizio del 1860. Sarà l’iniziativa dei Mille a costringerlo a quel progetto democratico unitario i cui tempi e modi non condivide.
“Rottami senza coesione”
La disomogeneità territoriale è un classico topos della cultura nazionale. Cesare Balbo scrive nel 1844 che l’Italia assomma "da settentrione a mezzodì province e popoli così diversi tra sè come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa”. Francesco Domenico Guerrazzi sottolinea nel 1855 le incoerenze "quasi insuperabili che nell'Italia nostra derivano dalle razze, dai climi, dai suoli, e dai costumi differenti”.
Ma con il 1860, nella prospettiva di un’unificazione comprendente anche le regioni meridionali, tutto questo diventa materia di stretta attualità politica. Lo Stato italiano nasce su preesistenze difficili da mettere assieme. Lo storico Heinrich von Treitschke parla di “rottami senza coesione” e testimonia come, nelle terre ex-borboniche, "un mondo straniero si riveli agli occhi stupefatti degli italiani del nord, un contrasto assoluto di popolazioni e di vita morale ed economica”. Esagerazioni?
Giudizi irripetibili
La percezione che, venendo dal Piemonte e dalle regioni settentrionali, i contemporanei hanno del Mezzogiorno è netta, enfatica, spesso intrisa di pregiudizi etnici, se non razzisti. Un vero e proprio rosario di contumelie che viene dal fior fiore dell’élite risorgimentale. Luigi Carlo Farini: “Altro che Italia! Questa é Africa!”. Aurelio Saffi: “Un lascito della barbarie alla civiltà del XIX secolo”. Antonio Scialoja: “I meridionali sono otto milioni e mezzo di pecore”.
Giuseppe Bandi: “I Siciliani sono beduini”. Massimo D’Azeglio: “L’unificazione coi Napoletani mi fa paura: é come mettersi a letto un vaioloso”. Diomede Pantaleoni: “Napoli é un’ulcera e i napoletani sono la peste”. In realtà, sul problema delle disparità territoriali presenti nel paese al 1861, il dibattito storiografico é aperto e le opinioni non sono uniformi. Ma é comunque difficile negare che il Regno delle Due Sicilie presenti forti elementi di diversità rispetto alle regioni centro-settentrionali del paese.
Unità 3 - Il dualismo originario
Contadini e proprietari
Il Mezzogiorno borbonico vede una cronica conflittualità fra contadini e proprietari, avente come posta in gioco il controllo della terra e i diritti che su essa vantano gli uni e gli altri. Diritti incerti, che fomentano controversie giudiziarie, abusi dei signori, rivolte contadine. Gli agrari (e i loro beni) vengono identificati con l'usurpazione e l'illegalità, associati ad una idea di violenza. Certo è che i cosidetti galantuomini non di rado si appropriano delle terre demaniali, impediscono ai poveri l'uso dell'acqua e del bosco, monopolizzano le cariche municipali. Lo Stato non muove un dito o non ne ha la forza.
La questione demaniale, dirà nel 1901 Giustino Fortunato, rappresenta "un immenso strascico di risentimento e di odio", "lievito che fermenta", "fuoco che cova l'incendio". Qui si logora la legittimità delle classi dirigenti locali e la credibilità delle istituzioni. A causa di quella che è percepita come una grande ingiustizia nel Mezzogiorno "non più esiste la domestica tranquillità, e i suoi abitanti […] sono ormai degli uomini insocievoli" (G.Fortunato, Il Mezzogiorno e lo stato italiano, Vallecchi, Firenze, 1973 [1911], p. 68).
La violenza
Ancora a metà 800, il Mezzogiorno é attraversato dal fenomeno di una violenza privata e politica che nasce dai conflitti sociali e dalla debolezza dello Stato. Dagli Abruzzi alle Calabrie, le bande dei briganti agiscono senza troppi ostacoli. Contano sull'omertà di contadini e pastori e sulla connivenza di giudici e amministratori locali. In Sicilia, le "squadre" sono piccoli eserciti al servizio degli agrari e composte da contadini armati alla meno peggio.
Tutt’altro é il quadro nelle aree centro-settentrionali della penisola, dove le controversie legate all'occupazione abusiva dei demani hanno assunto forme legalitarie, giudiziarie, raramente di attacco a cose e persone. In Toscana, Lombardia, Piemonte, la nobiltà ha reagito all’abolizione dei privilegi, portata dai Francesi, con l’accrescimento della produttività della terra e facendosi paternalisticamente carico delle proprie comunità. Mettendo assieme cioè interessi particolari e interessi collettivi.
La rivolta siciliana (1/2)
Da decenni, la Sicilia è una polveriera pronta a saltare in aria. La popolazione nutre forti tensioni autonomistiche e odia i napoletani come fossero stranieri. Il suo braccio armato sono le bande rurali assoldate dagli agrari (le "squadre") e il menu peuple dei centri urbani. Legalità e ordine pubblico sono fragili. Si tratta di una società violenta, dove le forme delle lotte sociali e fazionali possono assumere carattere estremo e, nelle rivolte, al "senso della convivenza civile" possono sostituirsi "i più macabri riti" della vendetta popolare.
La rivolta siciliana (2/2)
Così ha scritto Salvatore Lupo ( Tra centro e periferia. Sui modi dell'aggregazione politica nel Mezzogiorno contemporaneo, in: "Meridiana", n.2, 1988, p.25). E' già successo nel 1848! Succede nel 1860, quando, con l’arrivo di Garibaldi la Sicilia non fatica a ritrovare la sua fiera unità antiborbonica. Lo accoglie come il liberatore dal giogo di Napoli. Entrano in azione le “squadre” contadine, si assaltano gli uffici fiscali, si aprono le carceri, si attaccano notabili e poliziotti, scorre molto sangue. L’insurrezione dilaga nelle campagne e poi a Palermo. L'esercito borbonico si ritira di fronte alla guerriglia rurale e urbana e alla criminalità comune, non prima di aver fatto strage di rivoltosi. Lo Stato non esiste più. Garibaldi vince nel giro di poche settimane. Ha con sè tutta l’isola, élites e popolo. La “nazione siciliana” trionfa.
Il suicidio politico dei Borbone
Il 25 giugno 1860, su pressione di Napoleone III, il giovane Francesco II fa una svolta radicale: aderisce alla prospettiva dell’unificazione italiana, ripristina la Costituzione del 1848, concede libertà di stampa e amnistia, indice le elezioni. Ma è un suicidio politico. Troppo tardivo per essere accettato dai cavouriani e dai democratici, finisce per delegittimare lo stesso regime borbonico.
Nelle settimane successive, in omaggio al costituzionalismo liberale, lo Stato viene letteralmente smontato: poliziotti, burocrati, intendenti, sindaci, ecc. sono pensionati, trasferiti o destituiti. Il regime licenzia i suoi fedelissimi e li sostituisce con uomini fedeli al nuovo corso. Una giravolta che sbriciola e disorienta il regime, senza avere il tempo di costruirne uno alternativo. I quadri dell'esercito si arrendono a migliaia. Quando Garibaldi risale lo stivale dalla Calabria a Napoli, trova uno Stato che si è autodissolto. A Napoli entra, disarmato, il 7 settembre. Il regime è già morto.
Gli anni del Grande Brigantaggio
L'incontro tra l'Italia e il Mezzogiorno non si chiude con l'ingresso di Garibaldi a Napoli. Al contrario, diventa presto conflitto armato. Dal 1861, decine di villaggi sono sul piede di guerra contro uno Stato "piemontese" che chiede uomini per la leva militare e nuove tasse, mentre si accendono le lotte tra contadini e proprietari per la terra, le faide tra notabili per il potere municipale, i fuochi di guerriglia fomentati dai Barbone in esilio.
Bande armate attaccano gli uffici pubblici, le proprietà, le persone. L’unificazione ha creato aspettative subito andate deluse. L’esercito borbonico è disperso. Quello garibaldino è stato sciolto. L'onda della rivolta politica e sociale si mescola alla criminalità. É il cosidetto grande brigantaggio. Il governo manda nei territori ex-borbonici oltre 110.000 militari, promulgando nel 1862 lo stato d’assedio e poi la Legge Pica. Alla fine resteranno sul terreno molte migliaia di morti, più che in tutte le guerre risorgimentali. L'inserimento del Mezzogiorno nel nuovo Stato si conferma drammatico.
Liberazione o annessione?
I gravi problemi dell'incontro tra il Sud e lo Stato nazionale non riguardano soltanto il brigantaggio. Già dal 1860, le profonde diversità -reali o percepite- del Mezzogiorno rispetto al paese legittimano i governi liberali a praticarvi politiche talvolta poco liberali. Dal regime luogotenenziale al trattamento riservato ai militari borbonici, dalla legislazione speciale per l’ordine pubblico alla rigida estensione delle leggi sarde, quelle politiche tradiscono la convinzione che il Sud é arretrato, “africano”, lontano dalla civiltà. E che vada gestito con le maniere forti. Bisogna ”usar la forza senza molte forme”, chiede Antonio Scialoja.
Nel Mezzogiorno servono ”ferro e fuoco”, dice Giuseppe La Farina. ”Truppa, truppa, truppa”, chiede Diomede Pantaleoni. Certo é che, spaventato dalla situazione del Sud, il ceto politico liberale abbandonerà ogni idea di decentramento e organizzerà lo Stato secondo un modello centralistico di tipo francese. Per dirla con Ernesto Ragionieri: “lo sviluppo del seme del decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale”.
Il più italiano dei territori italiani
Tanto più singolare appare la circostanza che questo Mezzogiorno, sebbene devastato da anni di conflitto sociale e antistatale e poi pacificato con strumenti draconiani, non svilupperà, nel successivo secolo e mezzo, posizioni antagonistiche o aspirazioni separatistiche. Tanto meno la forza di mobilitazione e la capacità di generare guerra civile dei micronazionalismi europei, come il basco, il catalano, il fiammingo, il corso.
Il Mezzogiorno resterà sempre sospettoso dei governi nazionali, nei confronti dei quali avanzerà recriminazioni e richieste risarcitorie, ma si presenterà comunque come problema nazionale. Mai metterà in discussione l’unità. Se negli anni del brigantaggio era sembrato minacciare la stessa sopravvivenza del nuovo Stato, diventerà poi -e lo è ancora oggi- il più italiano dei territori italiani.
Risorse della lezione
- Italia una nascita dolorosa
- La stagione dei liberali
- La guerra dei sospetti
- L'invenzione del fascismo
- Quei tre anni di fuoco
- L'età dei miracoli
- La Repubblica dei partiti
- La violenza politica
- Il crollo della prima repubblica
- I vent'anni di Silvio Berlusconi
- Un'interpretazione della storia d'Italia
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